lunedì 16 novembre 2009

A proposito del linguaggio universale

"Looking ahead to 2015 and beyond, there is no question that we can achieve the overarching goal: we can put an end to poverty. In almost all instances, experience has demonstrated the validity of earlier agreements on the way forward; in other words, we know what to do. But it requires an unswerving, collective, long-term effort."

Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.




Negli ultimi anni, le organizzazioni di stampo universale hanno intrapreso una lotta senza quartiere nella ricerca di un idem sentire mondiale per affrontare i problemi più sentiti soprattutto nei paesi in via di sviluppo. In questo senso è notevole l’impegno ed i compromessi presi negli innumerevoli fora, conferenze, programmi ecc., per proporre delle soluzioni, tra tanti altri, ai problemi correlati con la produzione e distribuzione di alimenti e lo sviluppo sostenibile.
Per citare un solo esempio, gli Obiettivi di sviluppo del millennio (MDG, dal suo acronimo inglese) mettono insieme gli interessi mondiali nati dagli impegni e mete stabiliti nel Vertice mondiale del 1990 (UNPD, 2000), in risposta alle principali sfide di sviluppo globale e alla richiesta delle società civili in materia di riduzione della povertà, educazione, salute materna, uguaglianza di genere e lotta contro la mortalità infantile, AIDS ed altre malattie. A mio avviso, questo è uno dei programmi più importanti sin dalla Conferenza di San Francisco del 1945.
Le mete globali (2015) potrebbero essere raggiunte se tutti gli attori lavorassero insieme facendo la loro parte. Si spera, in questo senso, che i paesi poveri migliorino la modalità di governo ed investano nelle loro popolazioni tramite programmi di sanità ed educazione. I paesi ricchi, a loro volta, sono chiamati ad appoggiarli tramite programmi di aiuti, revisione del debito ed un commercio più giusto.
Se ne parla molto, a livello internazionale, e le azioni intraprese auspicano un maggiore coinvolgimento di tutti gli attori per far sì che il mondo possa iniziare a marciare verso un futuro comune.
Il primo approccio, nelle organizzazioni internazionali di paesi, è quello del comune impegno, del lavoro in comune. Il primo problema da affrontare è la lingua che è uno degli elementi fondamentali della soggettività giuridica degli stati ed uno strumento di comunicazione col quale ogni singolo stato afferma la sua volontà sovrana su un territorio. La lingua resta ancora oggi un ostacolo alle volte insormontabile e/o difficile da superare nei negoziati internazionali.
Le lingue ufficiali delle Nazioni Unite e degli organismi collegati sono inglese, francese, spagnolo, cinese, arabo e russo. Questo aspetto di per sé acquisisce un connotato bivalente nella sfera internazionale: da una parte si riduce l’ambito di comprensione e di interazione a sole 6 lingue che grosso modo rappresentano abbondantemente più di tre quarti della popolazione mondiale; dall’altra, hanno per conseguenza che tutte le altre nazioni e territori (dove si parlano, per esempio, le moltissime lingue africane) debbano imparare a capire una di queste lingue ufficiali, solitamente l’inglese.
L’inglese delle Nazioni Unite – e dei moltissimi organismi internazionali ad essa collegati– è diventato, soprattutto con l’avvento della mondializzazione, la vera lingua di connessione tra i paesi appartenenti a questa organizzazione. È una lingua nuova, per moltissimi aspetti distaccata e diversa dall’inglese del Regno Unito o da quello degli Stati Uniti d’America. È stata arricchita, unificata dal lavoro di migliaia di operatori internazionali che nel tempo hanno contribuito a “creare” un modo più agevole di esprimersi, con delle regole stabilite e con una base di dati e concetti universali presenti in tutti i documenti prodotti da questa organizzazione e che non sfuggono all’occhio di un attento lettore o di un traduttore o interprete. Altre organizzazioni internazionali si sono aggregate a questa modalità, utilizzando le regole e terminologie stabilite dalle Nazioni Unite.
In questo senso ogni terminologia oggi utilizzata dall’ONU ha un corrispettivo nelle altre cinque lingue ufficiali ed un significato unico, preciso, esatto, utilizzato da tutti gli abitanti dei 192 paesi (ONU, 2007) che hanno a che fare con questa Organizzazione. Anche l’Unione Europea ha intrapreso la stessa strada ed oggi si affaccia alla nuova Torre di Babele globalizzata anche dall’inglese dell’Unione Europea .
Ogni documento (papers, reports, declarations ecc.) viene prodotto originalmente in inglese (indipendentemente dalla lingua del paese di origine), revisionato da tecnici e specialisti all’interno dell’ONU, editato e pubblicato solo quando la rispettiva Direzione ha accordato che è stato prodotto secondo le norme di stile editoriale dell’Organizzazione (ad esempio, la Faohoustyle o l’elenco delle parole suggerite per i testi della FAO, organismo collegato all’ONU) e revisionato secondo la banca dati di terminologia prodotta nel tempo e aggiornata di frequente.
Notevole lo sforzo di standardizzazione, elemento nel quale, mi si dia licenza, trovo quello “sforzo comune” e quel “sappiamo cosa fare” del brano da me riportato come primo paragrafo di questo lavoro. Ed, infatti, è proprio così: nel trovare un linguaggio comune per la comunicazione, i pescatori nicaraguesi che cercano lumache (ad esempio) lungo le coste del Mare dei carabi, utilizzeranno nella commercializzazione del loro prodotto, le stesse parole (misure, quantità, qualità ecc.) dei loro colleghi vietnamiti impegnati nello stesso lavoro, parecchie migliaia di chilometri lontani. Questo, già di per se, non è un inizio, ma un eccellente risultato!
La standardizzazione della comunicazione è veramente il primo passo per raggiungere l’uguaglianza tra le nazioni. L’ultima frontiera da abbattere è proprio quella della non comprensione (nel senso linguistico) tra i popoli del mondo. Ed il meccanismo messo in piede dall’ONU si è rivelato veramente idoneo proprio perché è utilizzando gli stessi concetti, imparando la lingua delle Nazioni Unite che ci riforniamo di uno strumento di lotta contro la povertà, contro l’analfabetismo e per lo sviluppo rurale sostenibile delle popolazioni del mondo.

Qualche anno fa iniziai a collaborare come vendor per le Nazioni Unite nel campo delle traduzioni, revisioni e dell’editing (rielaborazione redazionale). Da subito la sfida mi sembrò notevole e l’impegno per raggiungere lo standard proposto dalla Direzione di infrastruttura rurale ed agroindustrie (AGS - FAO) era anch’esso enorme.
Nei diversi contratti di collaborazione ho lavorato spesso e volentieri nel campo della pesca, la diversificazione dell’agricoltura e dello sviluppo sostenibile (improntati nella lotta per la mitigazione della povertà e la sicurezza alimentare), specializzandomi nella traduzione di questo tipo di terminologia.
La pesca, da me proposta come spunto per questo lavoro, è sempre stata presente nelle preoccupazioni delle Nazioni Unite circa lo sviluppo sostenibile, l’esaurimento delle risorse, e come mezzo alternativo di generazione di mezzi di sostentamento e di ingressi economici per le popolazioni che si sono stanziate nelle vicinanze di fiumi, laghi e del mare.
In materia di sviluppo economico (al di là dei conglomerati di popolazioni stanziate nelle zone forestali, rurali ed urbane) moltissimi abitanti del mondo vivono lungo le coste rivierasche e marine, sfruttando (anche con mezzi non sostenibili) i prodotti ittici per il loro immediato fabbisogno.
Ricorrente, nei testi delle Nazioni Unite, la preoccupazione per le buone pratiche agricole, di pesca, e la sostenibilità . In questo campo l’impegno ha sempre avuto la precedenza ed alcuni risultati sono lodevoli; ad esempio il Codice di condotta per la pesca responsabile della FAO, è uno sforzo colossale di traduzione in più di 25 lingue, dall’albanese fino al vietnamita! In questo, ed in altre innumerevoli direttrici e testi per la pesca responsabile, spaziano consigli, progetti, proposte e piani di azioni e di intervento, per regolare la pesca a tutti i livelli iniziando proprio dai villaggi di pescatori dei paesi in via di sviluppo. Si confà anche all’impegno dei governi per portare avanti i progetti proposti dalle Nazioni Unite e tutte le azioni necessarie per la dovuta sorveglianza e controllo dei risultati.
Questa, a dire il vero, è la parte più bella del lavoro di traduzione, forse pensare che con il proprio lavoro si sta contribuendo con il granello di sabbia ad aiutare ad affrontare i problemi e le vicissitudini delle diverse popolazioni del mondo. La parte tecnica, specifica, invece, è lastricata di moltissime ore in isolamento tentando di trovare “la parola giusta” (equivalenza) per trasmettere lo stesso messaggio con un codice linguistico diverso, quello della lingua di arrivo.
La scelta di ogni singola parola, quando si lavora nel campo delle traduzioni, ha una logica specifica che molte volte non riesce a trovare altra spiegazione che quel lungo processo di standardizzazione della terminologia intrapreso dalle Nazioni Unite.
Ecco da dove nasce la mia proposta di terminologia peschiera per questo lavoro. Ho scelto di analizzare alcune parole senza un giudizio preciso. Non sono le più difficili, né le più ricercate, nemmeno quelle di uso più ricorrente.
Il linguaggio della pesca, per concludere, come tutto il linguaggio dell’ONU, è in continua trasformazione e molte volte ho dovuto mettermi d’accordo con gli autori per proporre delle interpretazioni proprie da utilizzare. Questa è forse la parte più interessante del lavoro di traduzione: essere capaci di contribuire alla ricerca di un punto di partenza (la capacità di dialogo tra i diversi popoli del mondo) per affrontare meglio la lotta contro la povertà e gli aspetti dello sviluppo sostenibile.

Nessun commento: